PRIMA PREMESSA - SECONDA PREMESSA - tesi - ARGOMENTO-
Conclusione - DUE CONSEGUENZE - Altre due conseguenze.
UNA PER I PLATONICI, O BUDDHISTI; UNA PER GLI
ISLAMICI.
[Segue
da pag. 5] Come dicevamo
fin dalle prime righe, la tesi che il corpo umano sia immortale, sia pur alle condizioni inequivocabili poste dai Dottori della
Chiesa, è tesi che presenta una grande fecondità nel fornire delle mansuete, ragionevoli ma appuntite frecce alle
faretre di chi vuol colpire al cuore e amorevolmente ma fermamente ferire i convincimenti erronei che molti uomini si ostinano
post mortem.
Sant’Ireneo,
vescovo di Lione, Padre della Chiesa coevo del grande sant’Atanasio e con lui strenuo
partecipe alla battaglia durissima contro l’arianesimo, scrisse molte potenti pagine
per fornire argomenti razionali alla dottrina imperniata sulla fede, come si conviene a ogni
cristiano che sappia appropriarsi della formula vincolante e definitoria dell’atto interno
della fede, « cogitare approvando » (Cum assensione cogitare; Summa
Theol., II-II, q. 2, a. 1).
Scrisse
quindi anche contro l’erronea dottrina della reincarnazione, o metempsicosi, che fonda
buona parte della sua fuorviante persuasività sull’autorità di Platone,
definito da sant’Ireneo « quel vecchio ateniese che per primo espose questa
opinione senza poterla provare ».
Recentemente
questa teoria ha ricevuto poderosi rinforzi dal dilagare tra i cristiani degli insegnamenti
buddhisti. Noi siamo convinti che la penetrazione dell’eresia della reincarnazione sia
stata nei secoli sempre molto significativa, e sempre se ne è sottovalutato il fascino
dovuto alla sua apparente mitezza di pura opinione: niente dogmi, niente verità, niente
autorità, ma solo una sorta di affabulazione mitica e femminea, per la quale l’anima
può cullarsi e sognare di passare di vita in vita senza né giudice né
giudizio, né fuoco né demoni, né colpa né pene. Cosa si può
proporre di più serafico, dolce e rassicurante? Facciamo nostra, ancora una volta,
una centrale tesi del professor Romano Amerio, che vedeva la dissoluzione della dottrina cattolica
nel versamento della verità dal purissimo e aureo calice del dogma nell’ectoplasma
dell’amore. Si tramutano così le essenze. E lo chiamo così: ectoplasma,
perché non sto parlando della Terza Persona della santissima Trinità, del Santo
Spirito d’Amore, ma del suo diabolico scimmiottamento, il perduto amore di sé
che accosta la vera mistica, la quale pone radice e tendenza nella verità, a una leggera,
aerea e volatile vita vegetativa del proprio Io perso nel nulla.
Le
anime attirate da queste opinioni sono tra le più turbate dalla morte, e, come Platone,
come Orfeo, come Sofocle, si studiano di darsi un simulacro di immortalità per sfuggire,
con una specie di svenimento intellettuale, al tremendum dei vermi.
Sant’Ireneo
propose diversi argomenti irrefragabili per dimostrare l’infondatezza degli argomenti
platoneggianti, il più forte dei quali è senz’altro quello che rileva
come un’anima, ammesso che abbia avuto esperienze precedenti in altri corpi anche di
animali non razionali, come essi sostengono, dovrebbe ricordare quelle esperienze, ma non
le ricorda, perché, dicono, è in un corpo che per natura sua non è adeguato
all’anima, gli è prigione, è causa della sua dimenticanza tanto da essere
chiamato proprio « corpo di dimenticanza ». E che il corpo sia la causa
prima dell’oblio dell’anima è notoriamente punto centrale del platonismo
per spiegare la superiorità della realtà del mondo ideale nei confronti del
materiale. Ma qui vi è contraddizione, dice sant’Ireneo, perché nessuno
può arguire le azioni di un’anima precedentemente all’essere stata posta
essa in un corpo, se il corpo stesso in cui è stata immessa è « corpo
di dimenticanza », come essi stessi lo chiamano. 1
Con
la dimostrazione dell’immortalità del corpo si sgomina d’un sol fiato l’indeterminatezza
individuale propria dei paradisi platonicobuddhisti, dove i ‘beati’ perdono irrimediabilmente
la propria coscienza, vuoi nei nirvana, vuoi nei cieli suburanici, vuoi nell’Assoluto
trascendente, come di volta in volta sono chiamati i luoghi ultraterreni nelle loro filosofie.
Infatti la nostra dimostrazione evidenzia, inequivocabile, che il corpo risorto è personale,
individuato in quella materia lì, animata da quell’anima lì, perché
la leva capace di svellere la morte è precisamente l’orrore per quella morte
lì: di quel congiunto, di quella sposa, di quel figlio, o anche della propria,
che si intravede dinanzi a sé nel progressivo rattrappimento o nel veloce dissanguamento.
Ora,
se l’intelletto è mosso al dolore, e vi è mosso da una causa ben individuata,
solo un’eguale causa parimenti individuata potrà rimuovere il dolore cui è
giunto e riportarlo nella quiete della beatitudine: se un uomo è orbato di un occhio,
solo la restituzione della vista dell’occhio orbato potrà ridargli la soddisfazione
della propria riaffermata integrità. Ma i platonici dicono: no, egli vedrà di
nuovo tutto e massimamente nella vista universale in cui sarà accolto. E si
risponde che, primo: nella vista generale non può sussistere un uomo difettato, che
porterebbe difetto alla vista generale; secondo: l’uomo reintegrato del suo proprio
occhio si sentirà partecipe dell’universale proprio per il motivo che solo così
reintegrato egli sarà partecipante pienamente alla natura umana – per la quale
si dice uomo l’animale razionale con due occhi – senza mancarle in niente.
Se
il dolore è mosso dalla morte del corpo, il dolore sarà rimosso dalla risurrezione
del corpo. Ogni corpo è ascritto a un individuo determinato, animato da un’anima
determinata. Il corpo risorto non ammette una vita dopo la morte che non sia la vita di quel
corpo lì, e non di un insieme materiale indefinito, perché la materia impone
la sua individuazione.
E
se è vero che il motivo che fa congetturare una beatitudine dove tutte le intelligenze
si assorbono in un’unica intelligenza e tutte le vite fluiscono in un’unica vita,
probabilmente è dato da un irresistibile anelito d’amore – anche se disordinato
– allora si risponde che ancor più amoroso di quest’immensità impalpabile
e indeterminata è la cena offerta a ogni singolo invitato dal sorridente Padrone di
casa rivelato dalla Buona Novella: angeli, cherubini, arcangeli, serafini, la vista si sprofonda
nella luce di un Padre che chiama ciascuno per nome come per nome chiama ogni stella del cielo,
che si intenerisce e intenerisce ognuno; nella luce di un Figlio le cui piaghe splendenti
sono baciate sia da Mosè che dalla poverella dell’obolo del tempio, sia da Abramo
che dal peccatore che si batteva il petto nell’ombra dell’angolo più lontano
all’altare, sia dai grandi Pietro, Paolo, Giovanni – le colonne – che dal
ladrone crocifisso ma pentito. Vogliamo dire: questo è un amore personale! E la dimostrazione
esposta, dovendo cogliere dell’immortalità corporale particolarmente l’aspetto
individuale, personale, ne può dare una maggiore e più rassicurante convalida.
* * *
Tutt’altra
impostazione hanno gli Islamici e tutti quelli (Giudei, Protestanti e ancora Calvinisti in
particolare) che hanno una visione deterministica della salvezza (soteriologia) e della sorte
dell’uomo nell’aldilà (escatologia). Costoro, se pur in gradi diversi (più
eminenti tra gli Islamici), hanno delle aspettative così promettenti e satisfatorie
che il loro scardinamento risulta arduo.
Restando
ora al caso strettamente dei musulmani, emblematico per gli altri, sembrerebbe che essi abbiano
già la certezza dell’immortalità della carne, prevedendole un ‘paradiso’
dove possa dare sfogo alle sue passioni più triviali, tanto che Maometto, a una mirata
domanda: se i suoi ‘beati’ potessero dopo la risurrezione compiere atti di lussuria
dinanzi a Dio, rispose che « non ci sarebbe beatitudine se lì mancasse qualche
piacere, anzi, tutti i piaceri sarebbero inutili se non fossero seguiti dalla voluttà
della lussuria ». 1 [Stefano
Nitoglia, Islam, Anatomia di una setta, Effedieffe Edizioni, 1994 Milano, pag. 21.]
Ma
la nuova e perentoria dimostrazione delle asserzioni tomiste sull’immortalità
carnale inquadrano tutta la questione della beatitudine sotto un aspetto che anche gli islamici
dovrebbero riconsiderare, anche se l’irrazionalità di fondo di tutto il loro
sistema, diciamo così, teologico, spunterà sùbito ogni dardo che voglia
raggiungere i loro cuori, troppo induriti nella voluttà.
Comunque
sia: la certezza dell’immortalità della carne vuole significare che gli asserti
dei Dottori della Chiesa ricevono una via dimostrativa che non avevano, ma non cambia il contenuto
degli asserti stessi. Anzi, abbiamo messo in evidenza immediatamente il legame tra Thanatos,
deperibilità e morte, e Logos, Intelletto divino e vita, nel senso che questo
annienta quello vivificando con un atto di ragione, di purissimo intelletto, la realtà
che più ne è lontana: la materia.
Ciò
vuol dire che il corpo dei beati è vivificato dal Logos, Intelletto divino,
riguadagnando il posto perduto a causa del disordine procurato all’inizio della storia
dell’uomo dalla ribellione di un intelletto umano. Quindi i beati non saranno affatto
voluttuosi, ma sommamente ragionevoli, e anzi soprannaturalmente ragionevoli, godendo nel
più profondo del cuore – la più intima camera dei loro intelletti liberati
– dell’eterna visione di Dio.
Questo in primis. Inoltre,
proprio con la dimostrazione si evidenzia che i paradisi non sono luoghi riservati ai soli uomini, dove le donne presenti sono
più che altro squallide femmine che poco hanno a che fare con le discendenti di Eva e con le sorelle della beata Vergine.
La dimostrazione chiarisce ed esalta che dinanzi a Dio non c’è più né Giudeo né Greco, né
uomo né donna, né schiavo né libero, perché dinanzi alla morte tutti gli uomini sono uguali, e se
lo sono nel dolore non possono non esserlo nel suo risarcimento. La dimostrazione che certamente ai corpi è conveniente
l’immortalità pone tutti i corpi su un piano di uguaglianza che esclude il piacere carnale (ma anche altri piaceri
carnalmente intesi: l’economia, la conoscenza, l’arte, sono tutte cose che in Paradiso hanno attuazioni non finalizzate
alla carne). (Vai a pag. 7 di 8)
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